IL TRIBUNALE MILITARE
    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  nella causa contro Aleci
 Mario, nato il 3 luglio 1969 a Marsala (Trapani),  ivi  residente  in
 Contrada   Paolini   n.   180;  celibe,  licenza  media,  elettrauto,
 impossidente,  incensurato,   soldato   nel   2›   gruppo   squadroni
 meccanizzato   "Piemonte  cavalleria"  in  Villa  Opicina  (Trieste);
 libero, imputato di insubordinazione con ingiuria ed insubordinazione
 con  minaccia,  aggravata  e  continuata  (artt. 189, primo e secondo
 comma, del c.p.m.p.; 81 cpv. del c.p.) perche', soldato nel 2› gruppo
 squadroni   meccanizzato   "Piemonte  cavalleria'  in  Villa  Opicina
 (Trieste), il giorno 9 gennaio 1989 verso le ore 23 in  una  camerata
 della  caserma sede del predetto reparto, con piu' azioni distinte ma
 esecutive di un medesimo  disegno  criminoso,  in  un  primo  momento
 offendeva  il  prestigio,  l'onore  e  la dignita' del superiore c.le
 Momente' Gianluca in presenza di lui dicendogli: "Non  mi  rompere  i
 coglioni,  figlio  di  puttana";  subito  dopo minacciava un ingiusto
 danno allo stesso  superiore  c.le  Momente'  Gianluca  dicendo  alla
 presenza di lui: "Ti spacco la testa, ti aspetto fuori".
    Con  l'aggravante  di aver commesso il fatto alla presenza di piu'
 di tre militari (art. 47, n. 4, del c.p.m.p.).
                            FATTO E DIRITTO
    Sono  comparsi  dinanzi  a  questo  tribunale militare il caporale
 Gualdi Damiano ed i soldati Criscenti Giorgio  ed  Aleci  Mario,  per
 rispondere il primo del reato di violenza contro inferiore continuata
 (artt. 81 cpv. del c.p.; 195, primo comma,  del  c.p.m.p.)  posto  in
 essere  a  danno  del  Criscenti  e di altri militari, il secondo del
 reato di insubordinazione con minaccia (art. 189,  primo  comma,  del
 c.p.m.p.)  posto  in essere a danno del Gualdi, ed il terzo del reato
 di insubordinazione con ingiuria e con minaccia continuata (artt.  81
 del  c.p.; 189, primo e scondo comma, del c.p.m.p.) posto in essere a
 danno del caporale Momente' Gianluca.
    Anteriormente  all'apertura  del  dibattimento,  il  tribunale, su
 istanza dell'interessato e con il consenso del pubblico ministero, ha
 disposto  il giudizio abbreviato e allo scopo disposto la separazione
 del procedimento nei confronti del Gualdi.
    A conclusione del dibattimento, con sentenza a parte viene assolto
 il soldato Criscenti, non essendo emerse  a  suo  carico  sufficienti
 prove di reita'.
    E'  rimasto,  invece,  compiutamente  provato  il reato continuato
 attribuito al soldato  Aleci.  Piu'  precisamente  lo  stesso,  il  9
 gennaio  1989 nella camerata dove era alloggiato in Villa Opicina, ha
 ingiuriato un caporale (il Momente' secondo il capo di imputazione, o
 il   Gualdi   come   appare   ppiu'   probabile  sulla  scorta  delle
 dichiarazioni acquisite nell'istruttoria  dibattimentale)  dicendogli
 "Non  mi  rompere i coglioni, figlio di puttana", e poi ha minacciato
 il medesimo con l'espressione "ti spacco la testa, ti aspetto fuori".
    Per  la  definizione del giudizio nei confronti del soldato Aleci,
 occorre  tuttavia  aver  presenti  la  complessiva   vicenda   e   le
 circostanze  in  cui queste ingiurie e minacce sono venute in essere.
 Nella nottata tra il 9  ed  il  10  gennaio  1989  il  Gualdi  ed  il
 Momente',  militari  relativamente anziani e per di piu' graduati, si
 erano dedicati, come da qualche tempo erano soliti fare, ad attivita'
 vessatorie nei confronti dei commilitoni dell'ultimo contingente, tra
 i quali l'Aleci ed il Criscenti. Prendendo a pretesto  il  fatto  che
 nessuno  dei  piu'  giovani  si  era  offerto di fare la branda ad un
 anziano, erano di prepotenza entrati nella camerata delle reclute, ed
 avevano rovesciato delle brande facendo finire a terra quanti, alcuni
 dei quali gia' addormentati, vi erano stesi per  il  riposo  notturno
 (c.d.  sbrandamento).  L'Aleci,  che  in  branda  non  si  era ancora
 addormentato, si era reso conto  del  pericolo  che  correva  ed  era
 riuscito  a  bloccare  il  tentativo  del caporale di rovesciargli la
 branda e di farlo  finire  a  terra.  Proprio  in  questo  frangente,
 esasperato  dal  tentativo  che  aveva  poco  prima  sventato e dalle
 angherie subite anche nei giorni precedenti sin  dal  suo  arrivo  al
 reparto,  e  sentendo che i due graduati, non paghi di quanto stavano
 facendo,   con   il   solito   frasario   militare   ("state   muti",
 "scoppierete",     "piangerete",    "dormite    preoccupati"    ecc.)
 spavaldamente promettevano che nella  nottata  e  successivamente  si
 sarebbero  ripetute  le molestie ed il trattamento vessatorio, non si
 era piu' controllato ed aveva pronunciato le espressioni ingiuriose e
 minacciose  a  danno  del  caporale.  Dopo  gli  sbrandamenti,  i due
 caporali avevano ancora costretto le reclute ad indossare le speciali
 calzature  militari (c.d. anfibi) ed a pulire il pavimento del locale
 dei  servizi  igienici,  che  essi  stessi  in  precedenza  per  maro
 divertimento  avevano sporacato. Piu' tardi, contro il Criscenti, che
 dormiva in branda, avevano scagliato un sacchetto di  plastica  pieno
 d'acqua (c.d. gavettone).
    In   definitiva,  l'istruttoria  dibattimentale  ha  chiarito  che
 l'Aleci ha profferito  le  espressioni  incriminate  in  stato  d'ira
 subito  dopo  aver  impedito  al  graduato  di  portare  a termine lo
 sbrandamento, e inoltre a scopo difensivo, nel tentativo  di  indurre
 lo  stesso  superiore ad astenersi per il futuro da comportamenti del
 genere nei suoi confronti.
    Alla stregua della normativa penale comune, l'Aleci verrebbe senza
 dubbio assolto: da un canto l'ingiuria sarebbe non punibile  a  norma
 dell'art.   599,  secondo  comma,  del  c.p.;  dall'altro  la  stessa
 ingiuria, e soprattutto la minaccia, dovrebbe qualificarsi  legittima
 difesa  a  norma dell'art. 52 del c.p. Se poi i reati posti in essere
 dall'Aleci  dovessero  assimilarsi  a   quello   comunque   delineato
 dall'art.  341  del c.p. (in effetti di frequente il superiore offeso
 e' anche un pubblico ufficiale nell'esercizio  delle  sue  funzioni),
 l'imputato  verrebbe  ugualmente  assolto in applicazione dell'art. 4
 d.leg. 14 settembre 1944, n. 288.
    Ben  diverse,  tuttavia,  sono  le  conclusioni cui si perviene in
 applicazione  della  normativa  penale  militare.  Come  il  pubblico
 ministero  ha  affermato  nella sua requisitoria, l'Aleci ha posto in
 essere il reato  di  ingiuria  configuarato  dall'art.  189,  secondo
 comma,  del  c.p.m.p.  e  pertanto  non  gli  puo'  essere  accordata
 l'esimente della provocazione che  l'art.  228,  secondo  comma,  del
 c.p.m.p.  stabilisce  per  i soli reati di ingiuria e di diffamazione
 configuarati, rispettivamente, dagli artt. 226 e 227 del c.p.m.p.  Ed
 anzi, l'aver agito nello stato d'ira determinato da un fatto ingiusto
 altrui e subito dopo di esso, e' previsto dall'art. 198 del  c.p.m.p.
 come  circostanza  attenuante  ad  efetto  speciale  per  vari reati,
 compreso quello qui in argomento.
    Per  quanto, poi, concerne la minaccia (art. 189, primo comma, del
 c.p.m.p.) e la problematica concernente la legittima difesa,  occorre
 tener  presente,  come  pure  ha osservato il pubblico ministero, che
 l'art. 42 del c.p.m.p., applicabile per i  reati  militari  in  luogo
 dell'art.  52 del c.p., giustifica la difesa solo quando si tratti di
 respingere una violenza ingiusta ed attuale, o al massimo  imminente,
 come  ha stabilito la giurisprudenza e la stessa Corte costituzionale
 con la sentenza - interpretativa di rigetto - n. 225 del 1987; ma non
 di  certo  quando, come nella specie, essendosi esaurito il tentativo
 di  violenza,  l'agente  abbia  profferito  minacce  avendo  presente
 solamente  la probabilita' del ripetersi in futuro di plurimi atti di
 nonnismo a suo danno e non si sia quindi trovato nella necessita'  di
 difendere  i beni, la vita e l'integrita' fisica, che con la violenza
 sono aggredibili, ma piuttosto diritti personali di  diversa  natura,
 quali   all'integrita'  morale  ed  alla  tranquillita'  psicologica.
 D'altra  parte,  applicabilita'  ai  reati  militari,  come  disposto
 dall'art.  22  della  legge n. 382/1978, dell'esimente dell'esercizio
 del diritto, non puo' comportare la  non  punibilita'  delle  minacce
 poste  in  essere  dall'Aleci,  dal  momento  che  non  si  tratta di
 comportamenti  che  dei  diritti  della  personalita'   costituiscano
 l'esercizio,  ma piuttosto di una vera e propria difesa dei medesimi.
    Quest'ultima essendo la normativa applicabile nella spesie, ancora
 una volta il tribunale si trova a dubitare della  legittimita'  della
 speciale  normativa  penale militare. Non manca, ovviamente, chi puo'
 genericamente considerare che le descritte deroghe siano giustificate
 dalle  esigenze  del  servizio,  cui  si riferisce l'art. 52, primo e
 secondo  comma,  della  Costituzione.  Ma  anche  in  questa  materia
 dovrebbero  rivelarsi decisivi l'esigenza che la regolamentazione per
 i reati militari ed il militare non sia senza valide ragioni  diversa
 da   quella  posta  per  altre  analoghe  situazioni  (art.  3  della
 Costituzione), e la specifica statuizione in tema di  responsabilita'
 penale  (art.  27, primo comma, della Costituzione), ed i principi di
 tutela delle prerogative e della dignita' della persona umana  (artt.
 2  e  52,  ultimo  comma,  della  Costituzione)  che  non possono non
 indicare un'inderogabile regola per lo stesso ordinamento militare.
    Con  l'esimente  della  provocazione  viene  conferito  il  dovuto
 rilievo di scusante ad elementi inerenti alla soggettivita',  vale  a
 dire da un lato all'intenso stato d'ira da cui e' dominata la persona
 che sta subendo un fatto ingiusto, e dall'altro, come  osserva  parte
 della  dottrina,  alla circostanza che la conseguente estemporanea ed
 immediata reazione nei confronti del provocatore si sia  esaurita  in
 nient'altro   che   in   un'ingiuria,  un  fatto  si'  obiettivamente
 delittuoso ma cosi' poco grave da non  denotare  alcuna  capacita'  a
 delinquere.  Il misconoscimento di questa realta' soggettiva - il che
 per l'ingiuria di cui all'art. 189, secondo comma, avviene  in  forza
 del  combinato  disposto  degli  artt.  228, secondo comma, e 198 del
 c.p.m.p. - rappresenta una violazione degli  artt.  2  e  52,  ultimo
 comma,  della Costituzione, nonche' del principio dell'art. 27, comma
 primo, della Costituzione, alla cui stregua la responsabilita' penale
 deve  fondarsi  su  un  giudizio di rimprovero che possa muoversi nei
 confronti dell'autore del fatto di reato.
    Per  quanto,  poi,  riguarda  il  principio di uguaglianza sancito
 dall'art. 3,  e'  chiaro  che  esso  appare  trasgredito  sia  se  si
 raffronta  la  speciale  normativa  qui  in  esame con quella dettata
 dall'art. 559, comma primo, del c.p. per i reati  di  ingiuria  e  di
 diffamazione  configurati  dal codice penale comune o con quella, pur
 per certi aspetti particolare, stabilita dall'art.  4  del  dlgt.  14
 settembre  1944,  n.  288,  per i reati a danno di pubblici ufficiali
 delineati negli artt. 336, 337, 338, 339, 341, 342 e  343  del  c.p.;
 sia se il confronto viene istituito con la disciplina posta dall'art.
 228,  secondo  comma,  del  c.p.m.p.  per  i  reati  di  ingiuria   e
 diffamazione configurati dagli artt. 226 e 227 del c.p.m.p.
    In sostanza, e' proprio un unicum l'esclusione dell'esimente della
 provocazione in riferimento al reato qui in esame, oltre che a quello
 analogo  previsto  dall'art.  196,  secondo  comma, del c.p.m.p. Ora,
 mentre questa singolarita' gia' puo' apparire come sufficiente indice
 della trasgressione del principio dell'art. 3 della Costituzione, non
 si deve pensare che la deroga acquisisca razionalita'  per  il  fatto
 che  con  la norma incriminatrice dell'art. 189, secondo comma (oltre
 che con quella  dell'art.  196,  secondo  comma)  viene  tutelato  il
 rapporto  di  gerarchia militare. Da un lato, infatti, rimarrebbe pur
 sempre da spiegare la diversita'  rispetto  alla  disciplina  comune,
 peraltro piu' ampiamente favorevole all'imputato, concernente i reati
 pure posti in essere contro l'autorita' e  le  persone  rivestite  di
 pubbliche  funzioni,  categoria nel cui novero inoltre spesso rientra
 lo  stesso  superiore  gerarchico  militare;  dall'altro,  anche  nel
 confronto  con  l'art.  226  si dovrebbe pur sempre dimostrare in che
 senso la diversita' di trattamento sia ascrivibile alle  esigenze  di
 tutela del rapporto gerarchico.
    Si  rende  necessaria,  inoltre,  una  riflessione  sui criteri di
 distinzione tra il fatto di reato configurato dall'art. 189,  secondo
 comma e quello configurato dall'art. 226 del c.p.m.p.
    Alla  stregua  dell'art.  199 del c.p.m.p., l'ingiuria a danno del
 superiore non sempre costituisce il  reato  previsto  dall'art.  189,
 secondo comma, e rientra invece nella previsione dell'art. 226 quando
 sia  posta  in  essere  "per  cause  estranee  al  servizio  ed  alla
 disciplina  militare,  fuori  dalla  presenza di militari riuniti per
 servizio e da militare che non si trovi in servizio o a bordo di  una
 nave militare o di un aeromobile militare o in luoghi militari".
    Pure senza potersi addentrare in ogni problematica al riguardo, e'
 abbastanza evidente una  certa  irrazionalita'  dei  cennati  criteri
 distintivi  tra  il  reato  contro il rapporto di gerarchia e quello,
 pure compreso nel novero dei reati militari, contro la persona  (art.
 226).  Basti  considerare  che  non  e'  previsto  come  criterio  la
 circostanza se  il  superiore  offeso  stia,  o  meno,  svolgendo  un
 servizio,  e,  per venire ad aspetti piu' direttamente concernenti la
 fattispecie qui in esame, che l'aver ingiuriato il superiore a  causa
 dello  stato  d'ira determinato da un suo fatto ingiusto, e' elemento
 tale da negare rilievo ad un'eventuale sottostante causa attinente al
 servizio  o alla disciplina. Ne puo' derivare, come del resto avviene
 per il fatto di reato posto in essere dall'Aleci, che la disposizione
 dell'art.   189,   secondo   comma,  sia  applicabile  solo  perche',
 circostanza  relativamente  insignificante,  ci  si  trovi  in  luogo
 militate;  e  che,  al  contrario,  quando ci si trovi al di fuori di
 questi luoghi, sia proprio la causa riportabile al fatto ingiusto del
 superiore  a  negare ogni rilevanza ad una situazione magari ben piu'
 coinvolgente il servizio o la disciplina  militare.  In  quest'ultimo
 caso,  evidentemente,  l'aver agito nello stato d'ira determinato dal
 fatto ingiusto del superiore comporta addirittura un duplice effetto:
 prima  rende  inapplicabile  le norma dell'art. 189, secondo comma, e
 poi determina la non punibilita',  a  norma  dell'art.  228,  secondo
 comma, del reato militare comune delineato dall'art. 226.
    Pertanto,  mentre  e'  ancora  da  dimostrare che la diversita' di
 trattamento della provocazione possa comunque trovare giustificazione
 in  una  coerente  tutela  del  rapporto di gerarchia, sono le stesse
 irrazionalita'  contenute  nella   disposizione   dell'art.   198   a
 determinare  ulteriori  e piu' specifiche violazioni del principio di
 uguaglianza, conseguenti alle varie circostanze in  cui  il  militare
 pone in essere un'ingiuria a danno del superiore provocatore, tali da
 comportare in certi casi l'applicazione dell'esimente, ed in altri da
 escluderla.
    Ne',  infine,  va  sottaciuto  che la stessa Corte costituzionale,
 pronunciandosi sulla provocazione nell'ambito militare, peraltro pesa
 in considerazione come circostanza attenuante (sentenza n. 213/1984),
 non ha individuato alcuna valida  giustificazione  per  mantenere  in
 vita  la  norma  dell'art.  49  del  c.p.m.p.  che,  allo stato d'ira
 determinato dal fatto ingiusto altrui negava, in deroga all'art.  62,
 n.  2,  del c.p., nell'ambito dell'ordinamento penale militare quella
 rilevanza  di  carattere  generale  che  esso  invece  da  sempre  ha
 nell'ordinamento penale comune.
    Per   quanto,   poi,  concerne  la  legittima  difesa  configurata
 dall'art. 42 del c.p.m.p., appare illegittima, sempre  per  contrasto
 con  gli  artt. 2 e 52, ultimo comma, della Costituzione, che non sia
 in via di principio  consentita  la  difesa  di  diritti  diversi  da
 quelli,  alla  vita ed all'integrita' fisica, aggredibili dall'altrui
 azione  violenta.  Ne  risultano   per   questo   ingiustificatamente
 affievoliti i diritti patrimoniali del militare, nonche' fondamentali
 diritti della  personalita',  quali  all'integrita'  morale  ed  alla
 tranquillita'  psicologica,  per  l'appunto  venuti  in  rilievo  nel
 presente giudizio.
    Questa   droga   ai   principi  comuni,  che  trae  origine  dalla
 tradizionale concezione (ora parzialmente superata a seguito del gia'
 citato  art.  22 della legge n. 382/1978), secondo cui il militare in
 via  di  massima  non  poteva  considerarsi  portatore   di   diritti
 nell'ambito  dell'ordinamento  militare,  cui  peraltro si aggiungeva
 un'altra esigenza, quella di non  ammettere  -  come  scrupolosamente
 riferiscono  i  lavori preparatori - che "il superiore che levasse la
 mano per colpire un inferiore ponga  costui  in  stato  di  legittima
 difesa",   evento  "eccessivo  ed  incompatibile  con  la  disciplina
 militare",  appare  inoltre  in  evidente  contrasto  con  la   norma
 dell'art. 3 della Costituzione.
    In  definitiva,  alla stregua delle considerazioni svolte, debbono
 essere sollevate  le  questioni  di  legittimita'  degli  artt.  228,
 secondo  comma,  e 198 del c.p.m.p. in relazione agli artt. 2, 3, 27,
 primo comma, e 52, ultimo comma, della Costituzione, e  dell'art.  42
 del  c.p.m.p., in riferimento all'art. 52 del c.p., in relazione agli
 artt. 2, 3 e 52, ultimo comma, della Costituzione.